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Arte

Il potere delle immagini

di Amj

(28/02/2024)

Le immagini rappresentano una forma di comunicazione silenziosa, un linguaggio particolare fatto di segni e colori, capace di influenzarci, di sedurci, di suscitare in noi sensazioni ed emozioni. Questo potere spesso, nel corso della storia, è stato contrastato da fenomeni di iconoclastia, nati proprio dalla convinzione che le immagini posseggano un enorme potere. Molte opere letterarie parlano di statue viventi, di case stregate e di specchi magici, come se le immagini possano essere animate e personificate, ad esempio nel romanzo di Oscar Wilde “Dorian Gray” in cui è il ritratto del protagonista ad invecchiare al suo posto. Un’immagine, se formulata nel modo giusto, è capace di propagandare un pensiero, una convinzione, un’ideologia. È il caso del manifesto pubblicitario dello “Zio Sam” realizzato da James Montgomery Flagg per il reclutamento nell’esercito americano durante la prima guerra mondiale. Nel manifesto è rappresentato, con un autoritratto dell’autore stesso, il simbolo degli Stati Uniti d’America, lo zio Sam, che guardando l’osservatore con sguardo penetrante e con il dito puntato verso di lui gli chiede, o per meglio dire gli comanda, di arruolarsi. Il potere di tale immagine è di immobilizzare e coinvolgere lo spettatore in prima persona. L’espediente del dito puntato verso l’osservatore fu utilizzato anche nel manifesto tedesco per il reclutamento, del 1916, in cui è un giovane soldato a chiedere ai suoi compatrioti di arruolarsi. Ma perché le immagini come quelle di dipinti ammalianti, dei manifesti o ancor di più quelle della pubblicità riescono ad influenzarci? Alcuni studiosi, critici d’arte ma anche scienziati, hanno fornito risposte differenti a questa domanda.

Copertina dell'e-book 'Il ritratto di Dorian Gray', edizioni Saga Manifesto pubblicitario dello “Zio Sam”, prima guerra mondiale
Copertina dell'e-book 'Il ritratto di Dorian Gray', edizioni Saga Manifesto pubblicitario dello “Zio Sam”, prima guerra mondiale

W.J.T Mitchell, Professore di Letteratura inglese e Storia dell’arte presso la University of Chicago, uno dei maggiori esponenti del nuovo campo di studi sulla cultura visuale, ha spostato il proprio interesse dal tradizionale studio del significato delle immagini e si è chiesto, al contrario, cosa desiderano le immagini, oggetti che egli in un certo senso soggettivizza. Difatti, Mitchell spiega che la fotografia di una persona cara, anche se è un oggetto inanimato, è per noi qualcosa di prezioso che vogliamo conservare e che mai distruggeremmo. Lo studioso paragona le immagini a categorie sociali che sono state oggetto di discriminazioni, come le donne e le persone di colore, che hanno combattuto per poter denunciare queste problematiche ed esprimere liberamente i propri pensieri, desideri e sentimenti. La conclusione cui giunge Mitchell è che anche se le immagini hanno un potere, questo è minore di quello che noi pensiamo, perché è il potere del debole, e di conseguenza ciò che esse desiderano è proprio il potere che a loro manca. Secondo lo studioso un dipinto non vuole soltanto attrarre e affascinare lo spettatore, facendolo fermare a contemplarlo, esso al contrario vorrebbe scambiarsi di posto con l’osservatore, immobilizzato da una sorta di effetto Medusa (Medusa era un mostro leggendario che pietrificava chiunque la guardasse negli occhi), e vivere nella realtà, libero di muoversi e parlare, al di là di ogni illusione. In conclusione, ciò che desiderano le immagini, secondo le teorie di Mitchell, è probabilmente che gli si chieda cosa vogliono.

Jackson Pollock, 'Number 1', olio e vernice su tela, 1948
Jackson Pollock, 'Number 1', olio e vernice su tela, 1948

Ancora più interessanti sono gli studi dei due rinomati studiosi David Freedberg, professore in Storia dell’arte presso la Columbia University di New York, e Vittorio Gallese, professore ordinario di Fisiologia all’Università degli Studi di Parma, i quali hanno effettuato una ricerca sulla simulazione incarnata e l’empatia ad essa correlata, in riferimento ai meccanismi neuronali determinati dalla contemplazione delle opere d’arte. La simulazione incarnata è un meccanismo funzionale, che ci è noto soprattutto dopo la scoperta dei neuroni specchio, che sono alla base dei nostri processi imitativi, attraverso cui riusciamo a comprendere in modo prerazionale le azioni, le emozioni, le sensazioni di altri individui. I neuroni specchio sono stati scoperti per la prima volta nella corteccia parietale posteriore e premotoria dei macachi e la ricerca scientifica ha dimostrato che “un’azione osservata o compiuta comporta l’attivazione degli stessi neuroni”, vale a dire che si attiva la stessa area cerebrale in colui che compie un’azione o prova un’emozione ed in colui che lo sta semplicemente osservando. È stato dimostrato che il sistema dei neuroni specchio esiste anche nel cervello umano; Freedberg e Gallese affermano che contemplando un’opera d’arte lo spettatore tende a simulare in modo automatico il movimento che sta compiendo un personaggio rappresentato in tale opera, addirittura anche il movimento compiuto dell’artista, implicito nelle pennellate o negli schizzi di colore, come nei dipinti di Jackson Pollock. In sintesi, i neuroni specchio aiutano a comprendere un’azione, anche atti motori mai eseguiti da chi osserva, ma anche a decodificare la sua intenzione sottintesa.

Caravaggio, 'Giuditta e Oloferne, olio su tela, 1598-1602 circa
Caravaggio, 'Giuditta e Oloferne, olio su tela, 1598-1602 circa

Alcuni esperimenti effettuati su esseri umani hanno rilevato che anche la semplice osservazione di oggetti afferrabili, reali o rappresentati, attiva, oltre alle aree visive dell’encefalo, anche quelle motorie, cioè quelle adibite al controllo dell’azione. La ricerca neuroscientifica recente ha rilevato le correlazioni esistenti fra emozione ed espressione fisiognomica, evidenziando che un osservatore tende a muovere gli stessi muscoli facciali della persona osservata, in un processo di immedesimazione che consente di comprendere precognitivamente, cioè prima di qualsiasi ragionamento, emozioni che sono provate da qualcun altro oppure che sono rappresentate in un’immagine. Lo stesso accade per le sensazioni, ad esempio se osserviamo una parte del corpo di qualcuno che viene toccata o accarezzata, si attivano le cortecce somatosensoriali che normalmente si attivano quando il nostro corpo è sottoposto ad una stimolazione tattile simile. Infine, questo coinvolgimento empatico dell’osservatore si manifesta anche quando egli osserva un segno grafico, che è il prodotto di un’azione, come una pennellata o una lettera scritta; in tal caso si genera una simulazione motoria del gesto necessario a realizzare tale segno, cioè si attiva un settore della corteccia premotoria che è coinvolta quando si scrive una lettera dell’alfabeto. In conclusione, queste recenti scoperte scientifiche ci svelano, almeno in parte, il motivo per cui le immagini artistiche suscitano in noi un fascino così grande e come sia determinante il talento di un artista nel generare nei fruitori delle opere d’arte delle reazioni empatiche. Inoltre, se consideriamo quanto determinante sia il coinvolgimento empatico nel processo della percezione visiva, possiamo comprendere meglio il potere seduttivo che posseggono molte opere d’arte o le immagini accattivanti realizzate a scopi pubblicitari.


FONTI BIBLIOGRAFICHE:

  1. W.J.T. Mitchell, “Che cosa vogliono le immagini?”, in “Teorie dell’immagine. Il dibattito contemporaneo”, a cura di Andrea Pinotti, Antonio Somaini, ed. Raffaello Cortina, Milano, 2009.
  2. D. Freedberg, V. Gallese, “Movimento, emozione ed empatia nell’esperienza estetica”, in “Teorie dell’immagine. Il dibattito contemporaneo”, a cura di Andrea Pinotti, Antonio Somaini, ed. Raffaello Cortina, Milano, 2009.